Principi, Convenzioni, Accordi e Protocolli internazionali per la protezione dell’ambiente marino

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    La necessità di affrontare a livello globale la questione della salvaguardia dell’ambiente marino dall’inquinamento si è posta a partire dagli anni ’70 a causa del crescente processo di industrializzazione ed ha portato vari organismi internazionali a negoziare e redigere numerose convenzioni sotto forma di accordi a carattere universale nei quali gli Stati firmatari si impegnano ad assicurare l’effettiva tutela del mare e delle sue risorse. Le convenzioni internazionali più importanti sono state definite sotto l’egida delle Nazioni Unite, principalmente attraverso l’autorità per l’ambiente e l’autorità per la normazione della sicurezza, la protezione e le prestazioni ambientali del trasporto marittimo internazionale.

    La protezione dell’ambiente marino e delle sue risorse
    Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e UN Fish Stock Agreement.
    La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (United Nations Convention on the Law of the Sea, UNCLOS), entrata in vigore il 16 novembre 1994, è un accordo internazionale che definisce i diritti e le responsabilità nell’utilizzo dei mari e degli oceani e stabilisce norme che disciplinano tutti gli usi delle risorse. Nella Convenzione, l’inquinamento dell’ambiente marino viene definito come l’introduzione diretta o indiretta, a opera dell’uomo, di sostanze o energia nell’ambiente marino ivi compresi gli estuari, che provochi o possa presumibilmente provocare effetti deleteri quali il danneggiamento delle risorse biologiche e della vita marina, rischi per la salute umana, impedimenti alle attività marine, ivi compresi la pesca e altri usi legittimi del mare, alterazioni della qualità dell’acqua di mare che ne compromettano l’utilizzazione, oppure il degrado delle attrattive ambientali. Secondo l’articolo 192, gli Stati hanno l’obbligo di proteggere e preservare l’ambiente marino dall’inquinamento, e l’articolo 194 stabilisce che gli Stati adottino tutte le misure atte a prevenire, ridurre e tenere sotto controllo l’inquinamento dell’ambiente marino, qualsiasi ne sia la fonte. Il successivo accordo delle Nazioni Unite, ai fini dell’applicazione delle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, relativo alla conservazione e alla gestione degli stock ittici transzonali e degli stock ittici altamente migratori stabilisce i principi per la conservazione e la gestione di questi stock ittici e stabilisce che tale gestione deve essere basata su un approccio precauzionale e sulle migliori informazioni scientifiche disponibili. L’accordo approfondisce il principio fondamentale che gli Stati devono cooperare per assicurare la conservazione delle risorse ittiche e prende in considerazione esplicita anche la problematica delle reti fantasma. L’Articolo 5, infatti, ne stabilisce i principi generali, tra i quali “ ridurre l’inquinamento, i rifiuti, i rigetti, le catture causate da attrezzi persi o abbandonati, le catture di specie non bersaglio, sia specie ittiche che non (di seguito denominato specie non bersaglio) e gli impatti su specie associate o dipendenti, in particolare le specie in pericolo, attraverso misure tra cui, per quanto possibile, lo sviluppo e l’uso di attrezzi da pesca e tecniche selettivi, sicuri per l’ambiente e economicamente convenienti”.

    LA TUTELA DELLA BIODIVERSITÀ
    La protezione dell’ambiente marino si inserisce in un contesto di strategie e politiche volte alla “protezione della biodiversità” e allo “sviluppo sostenibile” che trovano nella Convenzione di Rio e negli accordi conseguenti la loro origine. Il presente box approfondisce come gli organismi e gli
    enti hanno a diverso titolo affrontato e attuato tali strategie.

    ° Convenzione per la diversità biologica (UNEP, 1993) = La Convenzione sulla diversità biologica
    (CBD, Convention on Biological Diversity) è un trattato internazionale il cui fine è quello di tutelare la diversità biologica (o biodiversità) e l’utilizzazione durevole dei suoi elementi. La Convenzione, aperta alla firma nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992 ed entrata in vigore nel dicembre 1993, riconosce che la conservazione e l’utilizzo sostenibile della diversità biologica sono due elementi indispensabili per conseguire uno sviluppo sostenibile e per realizzare gli obiettivi di sviluppo in materia di povertà, salute e ambiente. Di conseguenza, la diversità biologica è riconosciuta come risorsa globale di enorme valore per le generazioni presenti e future, in quanto essenziale per la redditività a lungo termine delle attività agricole e alieutiche ed alla base di numerosi processi industriali e della produzione di nuovi medicinali. Nell’Articolo 2 della Convenzione la diversità biologica viene definita come “la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi origine, inclusa, tra l’altro, quella terrestre, marina e di altri ecosistemi acquatici ed i sistemi ecologici di cui fanno parte, questo include la diversità all’interno delle specie, tra le specie e degli ecosistemi”. La Convenzione promuove il principio che gli Stati sono responsabili della conservazione della diversità biologica nel loro territorio e dell’utilizzazione durevole delle loro risorse biologiche. Conformemente alla carta delle Nazioni Unite e ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse applicando la propria politica ambientale e hanno il dovere di fare in modo che le attività esercitate sotto la loro giurisdizione o il loro controllo non pregiudichino l’ambiente di altri Stati o di regioni che si trovino al di fuori della giurisdizione nazionale.

    ° La Direttiva Habitat (CE, 1992) La Direttiva Habitat (92/43/CEE), insieme alla Direttiva Uccelli (79/409/CEE) Costituiscono il pilastro della politica comunitaria europea per la conservazione della natura e comporta l’obbligo di resoconto periodico dello stato di conservazione delle specie e degli habitat di interesse comunitario. La Direttiva Habitat ha inoltre il merito di segnare la nascita di un altro grande strumento per la conservazione della biodiversità comunitaria: la Rete Natura 2000, che ha istituito Zone di Protezione Speciale (ZPS) e Siti di Interesse Comunitario/Zone Speciali di Conservazione (SIC/ZSC). La rete Natura 2000 oggi rappresenta circa il 18 % del territorio terrestre dell’UE. Gli allegati I e II della direttiva contengono i tipi di habitat e le specie la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione. Alcuni di essi sono definiti come tipi di habitat o di specie «prioritari» (che rischiano di scomparire). Nelle zone speciali di conservazione, gli Stati membri devono prendere tutte le misure necessarie per garantire la conservazione degli habitat e per evitarne il degrado nonché significative perturbazioni delle specie. Spetta inoltre agli Stati membri:
    – favorire la gestione degli elementi del paesaggio ritenuti essenziali per la migrazione, la distribuzione e lo scambio genetico delle specie selvatiche;
    – applicare sistemi di protezione rigorosi per talune specie animali e vegetali minacciate e studiare l’opportunità di reintrodurre tali specie sui rispettivi territori;
    – proibire l’impiego di metodi non selettivi di prelievo, di cattura e uccisione per talune specie vegetali ed animali.
    Entrambe le Direttive (Habitat ed Uccelli) interagiscono, per quanto riguarda gli ambienti di acque interne e costieri, con la Direttiva acque 2000/60 CE. Infatti, per quanto riguarda le aree protette istituite per la tutela di habitat e di specie dipendenti dall’ambiente acquatico, la Direttiva acque prevede il loro inserimento in uno o più registri e, nel caso di Siti Natura 2000, il raggiungimento degli obiettivi di conservazione previsti dalle direttive Habitat e Uccelli.

    ° La Strategia sulla biodiversità fino al 2020 (2011/2307 – INI)
    L’Unione Europea ha adottato una strategia per proteggere e migliorare lo stato della biodiversità in Europa; la Strategia risponde ai due grandi impegni assunti dai leader europei nel marzo 2010: arrestare la perdita di biodiversità nell’UE entro il 2020 e proteggere, valutare e ripristinare la biodiversità e i servizi ecosistemici nell’UE entro il 2050. La Strategia prevede sei obiettivi in relazione alle principali cause della
    perdita di biodiversità che permetteranno di ridurre gli impatti sulla natura:
    1) conservare e ripristinare l’ambiente naturale;
    2) preservare e valorizzare gli ecosistemi e i loro servizi;
    3) garantire la sostenibilità dell’agricoltura e della silvicoltura;
    4) garantire l’uso sostenibile delle risorse alieutiche;
    5) combattere le specie esotiche invasive;
    6) gestire la crisi della biodiversità a livello mondiale.

    ° La Strategia Nazionale per la Biodiversità (Italia, 2010)
    Nel 2010, anno internazionale della biodiversità, l’Italia si è dotata per la prima volta di una Strategia Nazionale per la Biodiversità, la cui elaborazione si colloca nell’ambito degli impegni assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione sulla Diversità Biologica avvenuta con la Legge n. 124 del 14 febbraio 1994. La Struttura della Strategia è articolata attorno a tre tematiche cardine:
    1) biodiversità e servizi ecosistemici;
    2) biodiversità e cambiamenti climatici;
    3) biodiversità e politiche economiche.
    In relazione alle tre tematiche, l’individuazione dei tre obiettivi strategici (garantire laconservazione della biodiversità; ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità e integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore), fra loro complementari, deriva da una attenta valutazione tecnico-scientifica che vede nella salvaguardia e nel recupero dei servizi ecosistemici e nel loro rapporto essenziale con la vita umana, l’aspetto prioritario di attuazione della conservazione della biodiversità. Gli obiettivi strategici mirano a garantire la permanenza dei servizi ecosistemici necessari alla vita, ad affrontare i cambiamenti ambientali ed economici in atto, ad ottimizzare i processi di sinergia fra le politiche di settore e la protezione ambientale. La Strategia Nazionale per la Biodiversità prevede l’elaborazione, ogni due anni, di un rapporto sull’attuazione e l’efficacia della Strategia stessa. A tal fine è stato predisposto un set preliminare di indicatori, costituito da 10 indicatori di stato che mirano a rappresentare e valutare lo stato della biodiversità in Italia e 30 indicatori di valutazione atti a valutare l’efficacia delle azioni svolte dal sistema paese nel raggiungimento degli obiettivi della Strategia.

    I CODICI DI CONDOTTA ADOTTATI A LIVELLO INTERNAZIONALE

    °Codice di Condotta per una Pesca Responsabile (FAO, 1995)
    Il Codice di Condotta per una Pesca Responsabile redatto dalla FAO è un documento di riferimento inteso a fornire una struttura organizzata alle legittime aspirazioni nazionali ed internazionali per un uso sostenibile delle risorse acquatiche. Il Codice, concepito per essere recepito dai singoli Stati su base volontaria, è tuttavia parzialmente fondato su normative internazionali largamente condivise, tra cui quelle formulate nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Alcuni articoli del Codice contemplano anche norme direttamente od indirettamente legate alla problematica degli attrezzi da pesca persi e/o abbandonati in mare. La FAO ha prodotto inoltre una serie di Linee Guida Tecniche per una Pesca Responsabile in cui delinea le corrette procedure per la marcatura dei pescherecci e degli attrezzi da pesca e per le attività di pesca. In particolare afferma che: i responsabili di un peschereccio o di qualsiasi altra attività di pesca, dovrebbero cercare per recuperare gli attrezzi da pesca persi. Nel caso di tentativi falliti di recupero, le dimensione, il tipo, la posizione e la marcatura degli attrezzi devono essere segnalati alle autorità competenti. Qualsiasi altro attrezzo perduto ritrovato, dovrebbe, per quanto possibile, essere recuperato e portato in porto o se non recuperato, i dettagli dell’attrezzo e la sua posizione devono essere segnalati alle autorità competenti.

    ° Codice Europeo di Buone Pratiche per una Pesca Sostenibile e Responsabile (CCPA, 2003)
    Il Comitato Consultivo per la Pesca e l’Acquacoltura (CCPA) ha redatto con la partecipazione attiva dei pescatori e delle altre parti interessate il Codice Europeo di Buone Pratiche per una Pesca Sostenibile e Responsabile. Il CCPA riunisce i principali organismi del settore della pesca e dell’acquacoltura (armatori, imprese di produzione, di trasformazione e di commercializzazione) e alcune organizzazioni rappresentative (associazioni di consumatori, di difesa dell’ambiente e di sviluppo), offrendo alle parti interessate uno spazio per discutere le questioni sollevate dalla creazione della politica comune della pesca (PCP). Il Codice Europeo fissa norme comportamentali per il settore della pesca atte a favorire e preservare ecosistemi marini sani e a consentire l’esercizio di una pesca responsabile. Rifacendosi al quadro fornito dal Codice di Condotta della FAO, il Codice Europeo contempla in modo più specifico le attività di pesca dell’Unione ed è fondamentalmente destinato agli operatori del settore alieutico. Tra le disposizioni che gli operatori europei del settore della pesca dovrebbero impegnansi ad adottare per “il rispetto delle risorse ittiche e del loro ambiente” vi è anche: “Adottare le misure necessarie per ridurre al minimo il rischio di perdita di attrezzi da pesca. Per quanto fattibile, si cercherà di recuperare al più presto gli attrezzi perduti. Qualora non fosse possibile il recupero immediato, il comandante registrerà la posizione dell’attrezzo perduto, la comunicherà alle autorità competenti e cercherà di provvedere successivamente al recupero”. La ge stione dei rifiuti in mare

    ° Convenzione MARPOL 73/78
    La Convenzione Internazionale per la Prevenzione dell’Inquinamento causato da navi (MARitime POLlution, MARPOL 73/78) costituisce una delle più importanti convenzioni per la tutela dell’ambiente marino ed è un accordo internazionale nel quale convergono due trattati internazionali, uno del 1973 e un Protocollo modificato del 1978. La convenzione si pone come obiettivo la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento del mare derivante dai rifiuti marittimi, idrocarburi e gas di scarico sia esso dovuto a cause accidentali o dalle operazioni di routine ed è stata ratificata dall’Italia con le leggi 462/80 e 438/82. Tale documento affronta la problematica della gestione di diversi tipi di rifiuti solidi prodotti da tutte le navi e specifica le distanze da terra ed il modo in cui possono essere smaltiti direttamente in mare. È di particolare rilievo il divieto assoluto di smaltire in mare qualsiasi tipo di materiale plastico, ivi comprese, ma non solo, corde sintetiche, reti da pesca sintetiche, sacchetti di immondizia di plastica e ceneri generate dagli inceneritori di prodotti in plastica che possono contenere sostanze tossiche o residui di metalli pesanti. Inoltre, vengono rese esplicite pesanti restrizioni per lo scarico di altri tipologie di rifiuti nelle aree costiere ed in “aree speciali”, cioè aree considerate particolarmente sensibili a causa dell’elevato traffico marittimo o caratterizzate da un ridotto ricambio di acqua (i.e. Mar Mediterraneo, Mar Baltico, Mar Nero, Mar Rosso, Golfo Persico, Mare del Nord, Mar dei Caraibi e Mar Antartico). In ultimo, è stabilito l’obbligo per gli Stati di attrezzare i porti e i terminal con adeguate strutture per il conferimento dei rifiuti. Nel luglio 2011, tale documento è stato modificato, affermando il divieto assoluto di scarico di tutti i rifiuti in mare, salvo quanto previsto in determinate circostanze e per taluni rifiuti specifici

    ° Convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre sostanze – Convenzione di Londra del 1972 e Protocollo del 1996 (proposta di legge).
    La Convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre sostanze, nota anche come “Convenzione di Londra” del 1972 è un accordo internazionale promosso dalle Nazioni Unite il cui obiettivo è quello di incoraggiare il controllo effettivo di tutte le fonti di inquinamento dell’ambiente marino. Gli Stati contraenti si impegnano in modo particolare ad adottare tutte le misure possibili per prevenire l’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti o di altri materiali suscettibili di mettere in pericolo la salute dell’uomo, di nuocere alle risorse biologiche, alla fauna e alla flora marine, di pregiudicare le zone di interesse turistico o di ostacolare altro uso legittimo del mare. La Convenzione vieta lo scarico di ogni rifiuto o altro materiale in qualunque forma e in qualunque condizione, comprese “le plastiche non distruttibili e gli altri materiali sintetici non distruttibili, come per esempio le reti ed il cordame, suscettibili di galleggiare o di rimanere sulla superficie del mare in modo da costituire un intralcio materiale alla pesca, alla navigazione e agli altri usi legittimi del mare”. Il 17 novembre 1996 una riunione straordinaria delle Parti Contraenti ha adottato il “Protocollo del 1996 alla Convenzione del 1972 sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti ed altre materie”.
    Il Protocollo si pone come sostitutivo dell’intera Convenzione del 1972, rappresentando un deciso mutamento nell’approccio alla questione dell’utilizzazione del mare come deposito di materiali di scarto. La prima rilevante novità del Protocollo è l’introduzione del cosiddetto “approccio precauzionale”, in base al quale, anche in mancanza di prove scientifiche conclusive, è necessario adottare appropriate misure preventive qualora vi sia motivo di ritenere che l’introduzione nell’ambiente marino di rifiuti o sostanze analoghe possa causare danni. Inoltre, il Protocollo stabilisce il principio di carattere generale dell’imputazione dei costi degli inquinamenti a chi se ne è reso responsabile (principio di “chi inquina paga”).

    PRINCIPI, CONVENZIONI E PROGRAMMI ATTUATIVI NELLA REGIONE MEDITERRANEA PER LA SALVAGUARDIA DELL’AMBIENTE MARINO.

    ° Convenzione per la Protezione del Mare Mediterraneo dall’Inquinamento (Convenzione di Barcellona) e Convenzione per la Protezione dell’Ambiente Marino e per lo Sviluppo Sostenibile della Regione Costiera del Mediterraneo (MAP Fase II).
    Gli Stati rivieraschi del Mar Mediterraneo (Spagna, Francia, Monaco, Italia, Malta, Croazia, Albania, Grecia, Cipro, Turchia, Siria, Libano, Israele, Palestina, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco), consapevoli delle loro responsabilità nel preservare e sviluppare la regione in modo sostenibile e riconoscendo la minaccia posta dall’inquinamento dell’ambiente marino hanno concordato nel 1975 di avviare un Piano d’Azione per la Protezione e lo Sviluppo del Bacino del Mediterraneo (MAP) e nel 1976 hanno firmato la Convenzione di Barcellona. La convenzione è entrata in vigore nel 1978. Nel 1995 le Parti contraenti hanno adottato sia un aggiornamento di tale convenzione, denominato MAP Fase II, che una versione modificata della Convenzione di Barcellona del 1976, ribattezzata “Convenzione per la Protezione dell’Ambiente Marino e della Regione Costiera del Mediterraneo”. I principali obiettivi della Convenzione consistono nel valutare e controllare l’inquinamento marino, garantire una gestione sostenibile delle risorse naturali marine e costiere, integrare l’ambiente nello sviluppo sociale ed economico, proteggere l’ambiente marino e le zone costiere attraverso la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, e per quanto possibile, eliminare l’inquinamento, sia terrestre che marittimo, proteggere il patrimonio naturale e culturale, rafforzare la solidarietà tra gli Stati costieri del Mediterraneo e contribuire al miglioramento della qualità della vita. La convenzione ha prodotto sette Protocolli che dovrebbero guidare gli stati contraenti nelle azioni di protezione dell’ambiente marino, affrontando aspetti specifici della conservazione ambientale del Mediterraneo:
    1. Protocollo sugli scarichi in mare
    (Dumping Protocol)
    Protocollo per la Prevenzione dell’Inquinamento nel Mar Mediterraneo derivante dagli scarichi di mezzi navali ed aerei. Già adottato il 16 febbraio 1976 e in vigore il 12 febbraio 1978, il Protocollo Dumping è stato modificato e registrato come Protocollo per la Prevenzione e l’Eliminazione dell’Inquinamento nel Mar Mediterraneo derivante da scarichi di mezzi navali ed aerei o da incenerimento di rifiuti in mare che, adottato il 10 giugno 1995, ad ora non è ancora entrato in vigore.
    2. Protocollo sulla prevenzione e sulle emergenze (Prevention and Emergency Protocol)
    Protocollo sulla cooperazione per la prevenzione dell’inquinamento derivante dal traffico marittimo, e, in casi di emergenza, per combattere ogni altra forma di inquinamento nel Mar Mediterraneo. Adottato il 25 Gennaio 2002, in vigore dal 17 Marzo 2004. Questo protocollo sostituisce il “Protocollo sulla cooperazione per combattere l’inquinamento del Mediterraneo da sostanze oleose e da altre sostanze pericolose in casi di emergenza”, già in vigore dal 12 Febbraio 1978.
    3. Protocollo per la protezione del Mar Mediterraneo dall’inquinamento derivante da sorgenti e
    attività sulla terraferma (LBS Protocol: Land Based Sources)
    Protocollo sull’inquinamento derivante da fonti presenti e attività umane svolte sulla terraferma che costeggia il Mediterraneo. Adottato il 7 Marzo 1996 (Siracusa, Italia). In vigore dall’ 11 Maggio 2008. Questo Protocollo sostituisce il “Protocollo per la protezione del Mediterraneo dall’inquinamento derivante da fonti presenti sulla terraferma”, già in vigore dal 17 giugno 1983.
    4. Protocollo sulle Aree Protette di Particolare Interesse e sulla Biodiversità nel Mediterraneo (SPA
    and Biodiversity Protocol: Specially Protected Areas)
    Protocollo sulle Aree Protette di Particolare Interesse e sulla Diversità Biologica nel Mediterraneo. Adottato il 10 Giugno 1995e Iin vigore dal 12 Dicembre 1999. Questo Protocollo sostituisce il Protocollo sulle “Mediterranean Specially Protected Areas” già in vigore dal 23 Marzo 1986.
    5. Protocollo sull’Altomare (Offshore Protocol) Protocollo per la Protezione del Mediterraneo
    contro l’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale, dei fondali e del relativo sottosuolo. Adottato il 14 Ottobre 1994 (Madrid, Spagna) ed
    entrato in vigore il 24/03/2011.
    6. Protocollo sui rifiuti pericolosi (Hazardous Wastes Protocol)
    Protocollo contro il pericolo di inquinamento del Mediterraneo derivante dal trasporto e dallo scarico in mare di sostanze pericolose. Adottato il 1 Ottobre 1996 e in vigore dal 19 Gennaio 2008.
    7. Protocollo sullo sviluppo ecosostenibile delle Zone Costiere nel Mediterraneo (ICZM Protocol: Integrated Coastal Zone Management) = Adottato il 21 Gennaio 2008 ed entrato in vigore il 24/03/2011.

    Programma di Azione Strategico per la gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo
    Nel 2011 è stato predisposto il “Programma di Azione Strategico per la gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo” il cui obiettivo generale è quello di contenere per quanto possibile le immissioni di rifiuti marini nel Mediterraneo adottando azioni regionali e nazionali. I rifiuti marini sono definiti come qualsiasi materiale solido persistente, fabbricato o trattato, smaltito o smaltito o abbandonato in ambiente marino e costiero, compreso materiale perso accidentalmente a accidentalmente a causa di condizioni meteo avverse (attrezzi da pesca, merce imbarcata). Il concetto alla base di questo approccio è che i rifiuti marini sono un problema locale, nazionale e transfrontaliero che richiede misure specifiche a ogni livello. La gestione dei rifiuti marini non può essere considerata un’attività autonoma ma deve rientrare in un approccio integrato di gestione dei rifiuti solidi a terra e in mare.
    Il Programma si pone cinque obiettivi specifici:
    1) migliorare la corretta applicazione della normativa esistente per la gestione dei rifiuti solidi sia urbani, che marini, sviluppando ulteriormente la capacità giuridica e istituzionale nelle autorità locali e portuali per gestire i rifiuti marini nell’ambito della gestione integrata delle zone costiere;
    2) ridurre, con obiettivo finale di eliminare, i rifiuti marini generati in siti (sulle spiagge) con particolare attenzione alla plastica e ai rifiuti derivati al fumo;
    3) sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità dell’adozione di comportamenti virtuosi finalizzati alla riduzione dell’abbandono di rifiuti da parte soprattutto di residenti turisti che-ùfrequentano le zone costiere del Mediterraneo;
    4) monitorare i trend produzione e distribuzione dei rifiuti marini attraverso l’istituzione di un
    programma ad hoc per i rifiuti marini nel Mar Mediterraneo;
    5) intensificare il networking tra tutte le iniziative in atto e/o pianificate nella regione del Mediterraneo con l’obiettivo di garantire coerenza ed il coordinamento delle molteplici attività
    programmate a svariati livelli.

    ° Piano Regionale per la gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo per prevenire ed eliminare l’inquinamento
    In un’ottica mediterranea, le Parti nel luglio del 2014 hanno adottato il “Piano Regionale per la gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo”: è il primo piano a livello regionale mediterraneo che prevede misure legalmente vincolanti per le stesse Parti in materia di gestione dei rifiuti marini. Gli
    obiettivi del Piano Regionale sono:
    a) prevenire e ridurre l’inquinamento da rifiuti marini nel Mediterraneo e il suo impatto sui servizi ecosistemici, sugli habitat, sulle specie in particolare quelle in via di estinzione, sulla salute pubblica e la sicurezza;
    b) rimuovere per quanto possibile i rifiuti marini esistenti con metodi rispettosi dell’ambiente;
    c) approfondire le informazioni disponibili;
    d) operare affinché la gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo sia effettuata conformemente a
    quanto stabilito da convenzioni internazionali ed in armonia con programmi e misure già applicate
    in altri bacini marini.
    In particolare si afferma che le Parti Contraenti dovranno:
    1) analizzare ed implementare per quanto possibile entro il 2017 le pratiche ecocompatibili di “fishing for litter”, in accordo con le competenti organizzazioni internazionali e regionali, per facilitare la pulizia dei rifiuti galleggianti e la pulizia del fondale marino dai rifiuti raccolti accidentalmente e/o prodotti dai pescherecci durante le loro attività compresi gli attrezzi da pesca abbandonati;
    2) analizzare ed implementare per quanto possibile entro il 2017 il concetto di “marcatura degli attrezzi per identificarne la proprietà” e il concetto di “ridurre le catture fantasma attraverso l’uso di reti, nasse e trappole che siano neutre dal punto di vista ambientale per quanto riguarda la loro degradabilità. Inoltre si specifica tra i potenziali argomenti di ricerca da sviluppare con il coinvolgimento della comunità scientifica: – valutazione e quantificazione di attrezzi da pesca persi in mare;
    3) valutazione del possibile depauperamento degli stock ittici a causa di attrezzi da pesca persi e/o
    abbandonati.

    POLITICHE E STRUMENTI EUROPEI PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE MARINO E LA GESTIONE DEI RIFIUTI
    La protezione dell’ambiente è, fin dagli anni ’70, uno degli obiettivi prioritari dell’Unione Europea, sia a livello di singoli Stati membri che su scala comune. La competenza europea in materia di ambiente è sancita già nel trattato costitutivo della stessa Unione e viene applicata secondo i principi di precauzione, dell’azione preventiva e della correzione alla fonte dei danni causati dall’inquinamento, nonché sul principio del “chi inquina paga”. Attualmente, la politica europea in materia ambientale trova il suo quadro di riferimento strategico nel 7° Programma d’Azione per l’Ambiente.
    Il 7° Programma d’Azione per l’Ambiente rappresenta una strategia comune volta a guidare le azioni future delle istituzioni dell’UE e degli Stati membri, che si assumono congiuntamente la responsabilità della sua realizzazione e del conseguimento di nove obiettivi prioritari da conseguire entro il 2020:
    1. proteggere, conservare e migliorare il capitale naturale dell’Unione;
    2. trasformare l’Unione in un’economia a basse emissioni di carbonio, efficiente nell’impiego delle
    risorse, verde e competitiva;
    3. proteggere i cittadini dell’Unione da pressioni legate all’ambiente e da rischi per la salute e il
    benessere;
    4. sfruttare al massimo i vantaggi della legislazione dell’Unione in materia di ambiente migliorandone l’attuazione;
    5. migliorare le basi di conoscenza e le basi scientifiche della politica ambientale dell’Unione;
    6. garantire investimenti a sostegno delle politiche in materia di ambiente e clima e tener conto delle esternalità ambientali;
    7. migliorare l’integrazione ambientale e la coerenza delle politiche;
    8. migliorare la sostenibilità delle città dell’Unione;
    9. aumentare l’efficacia dell’azione unionale nell’affrontare le sfide ambientali e climatiche a livello internazionale.
    La protezione dell’ambiente marino e la gestione delle sue risorse
    L’Unione Europa interviene direttamente nella tutela dell’ambiente marino attraverso strumenti volti sia a prevenire l’inquinamento delle acque (Direttiva quadro sulle acque; Dir.2000/60/CE) e a tutelare le risorse marine nel complesso (Direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino; Dir. 2008/56/CE), sia a gestire gli stock ittici (Politica Europea per la Pesca).
    Gli strumenti assunti dell’UE in tali ambiti, sebbene essenziali, contribuiscono tuttavia a proteggere
    il mare da pressioni specifiche con un approccio settoriale e frammentato. Vista la necessità di un’ approccio olistico per la gestione del mare e delle diverse attività antropiche che su di esso si sviluppano, l’Unione Europea ha recentemente adottato ulteriori importanti strumenti in materia di “pianificazione dello spazio marittimo” e “gestione integrate delle zone costiere”, accanto allo sviluppo di una politica marittima integrata. Inoltre, ha promosso l’attuazione di un approccio macro-regionale per lo sviluppo sostenibile e plurisettoriale del bacino adriatico-ionico. Tali strategie di ampio respiro costituiscono sempre più un quadro di riferimento articolato per l’applicazione delle misure di protezione dell’ambiente marino e la gestione delle sue risorse in ambito comunitario.

    LA STRATEGIA EUROPEA PER IL MARE ADRIATICO E IL MAR IONIO – EUSAIR
    Il 17 giugno 2014 la Commissione europea ha adottato una nuova “Strategia dell’UE per la regione adriatica e ionica” finalizzata a promuovere lo sviluppo sostenibile della macroregione Adriaticoionica, all’interno del quale la tutela delle risorse marine riveste un’importanza significative. In un’ottica di sviluppo endogeno dell’area, la strategia si concentra su un numero limitato di obiettivi ben definiti, articolati attorno a quattro pilastri interdipendenti di rilevanza strategica, tra i quali la “crescita blu” e la promozione della qualità ambientale. Il primo pilastro favorisce la crescita del settore marittimo adriatico-ionico innovativa, promuovendo, tra gli altri, lo sviluppo dei settori della pesca e dell’acquacoltura nonché delle nuove tecnologie destinate al contesto marittimo in un’ottica di sostenibilità economica ed ambientale degli investimenti. In terzo pilastro, invece, prevede un’azione congiunta per l’ambiente marino articolandosi in due punti: il primo relativo alla riduzione delle minacce alla biodiversità costiera e marina e il secondo alle misure per la prevenzione e la gestione dell’inquinamento del mare.
    Marine Strategy Framework Directive (2008/56/CE)
    La Direttiva Quadro sulla Strategia per l’Ambiente Marino 2008/56/CE (MSFD) istituisce un quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino e impone agli Stati membri di sviluppare strategie che dovrebbero portare alla realizzazione di programmi di misure per conseguire o mantenere un buono stato ecologico nei mari europei entro il 2020. La Direttiva tiene anche pienamente conto degli obblighi che incombono alla Comunità e agli Stati membri in virtù degli accordi presi nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) approvata dalla decisione 98/392/CE del Consiglio, del 23 marzo 1998.
    La Direttiva stabilisce che gli Stati Membri devono istituire programmi di controllo per la
    valutazione dei progressi verso il buono stato ecologico, per 11 specifici descrittori qualitativi:
    – mantenimento biodiversità;
    – controllo delle specie non-indigene;
    – buona salute degli stock di pesci e molluschi sfruttati a fini commerciali;
    – presenza di tutti gli elementi della rete trofica marina;
    – riduzione dell’eutrofizzazione umana;
    – integrità del fondo marino;
    – condizioni idrografiche;
    – presenza di contaminanti;
    – concentrazioni di contaminanti presenti nei pesci e in altri frutti di mare destinati al consumo umano;
    – proprietà e le quantità di rifiuti marini;
    – introduzione di energia, comprese le fonti sonore sottomarine.
    La Direttiva, entrata in vigore il 15 luglio 2008, con termine ultimo di recepimento per gli Stati
    membri al 15 luglio 2010, stabilisce regioni e sotto-regioni marine europee, sulla base di criteri geografici e ambientali: in particolare individua quattro regioni marine europee – il Mar Baltico, il Nord-Est dell’Oceano Atlantico, il Mar Mediterraneo e il Mar Nero – coerenti con le Convenzioni e Commissioni marine regionali già esistenti (Helsinki Commission, 1974; OSPAR Convention, 1972/1974; The Bonn Agreement on North Sea Maritime Pollution, 1969/1983; Barcellona Convention) . Per il descrittore 10 – Rifiuti Marini -, data la necessità di raccogliere dati coerenti e sistematici per l’Europa, è stato prodotto nel 2013 il documento “Guida per il monitoraggio dei rifiuti marini nei mari Europei” con l’obiettivo di uniformare le metodologie di indagine nell’ambito dei programmi di monitoraggio previsti. Il documento fornisce i protocolli metodologici per il monitoraggio dei rifiuti marini (presenti sul litorale, in colonna d’acqua e sul fondale) ed elenca le categorie da utilizzare per la loro classificazione. La guida inoltre fornisce un elenco di riferimento di oltre 200 tipologie di rifiuti, classificati in base al tipo di materiale del quale sono costituiti, che include sia tipologie comuni (per esempio i mozziconi di sigarette e le bottiglie di plastica), che tipologie più particolari caratteristiche di alcune sub-regioni. I rifiuti correlati alle attività di pesca ed acquacoltura sono stati categorizzati come: nasse, ceste da ostriche, reti di diversa dimensione, targhette di plastica, corde, grovigli di reti-corde-fili, reste da mitili e ostriche, lenze, galleggianti, cassette per il pesce sia di plastica che di polistirolo, altre tipologie minori di oggetti correlabili alle attività di pesca.

    DIRETTIVA QUADRO SULLE ACQUE (2000/60/CE)
    La direttiva 2000/60/CE (Direttiva Quadro sulle Acque) istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque ed ha introdotto un approccio legislativo innovativo sia dal punto di vista ambientale che da quello amministrativo-gestionale. L’obiettivo è la protezione delle acque interne superficiali, di transizione, costiere e sotterranee, per prevenirne e ridurne l’inquinamento, promuoverne un utilizzo sostenibile, proteggere l’ambiente acquatico, migliorare le condizioni degli ecosistemi acquatici e mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità. Nella Direttiva viene anche stabilito che entro il 2015 tutte le acque comunitarie debbano aver raggiunto un livello qualitativo definito di “buono stato ecologico e chimico”. Lo stato ecologico viene definito come espressione della qualità della struttura e del funzionamento degli ecosistemi acquatici. La classificazione avviene attraverso la valutazione degli Elementi di Qualità Biologica (EQB), supportati da elementi idromorfologici e chimico-fisici. Per quanto riguarda le aree marinocostiere, gli EQB sono rappresentati da: composizione, abbondanza e biomassa del fitoplancton, composizione e abbondanza dell’altra flora acquatica e dei macroinvertebrati bentonici. Per gli ambienti di transizione, vengono considerati anche lo studio della composizione e abbondanza della fauna ittica. Tali valutazioni vengono integrate da indagini sulla presenza delle sostanze prioritarie e pericolose prioritarie, condotte a livello del sedimento e della colonna d’acqua. La direttiva è entrata in vigore il 22 dicembre 2000 con termine ultimo di recepimento da parte degli Stati membri al 22
    dicembre 2003.

    Politica Comune per la Pesca (PCP) e gli strumenti attuativi
    Analogamente alla politica ambientale, anche l’adozione di una politica comune per le attività di, pesca e di prelievo delle risorse ittiche è stata demandata dagli stati membri all’Unione Europea fin dal Trattato istitutivo ed ha visto i primi provvedimenti già dagli anni ’70. Nel corso delle successive revisioni, la Politica Comune sulla Pesca (PCP) ha sempre più assorbito dalla suddetta politica ambientale e fatti propri i principi di sostenibilità dell’attività alieutica, muovendosi sempre più da una politica settoriale verso una politica trasversale. Ad oggi, infatti, la PCP riformata non interessa più solo la gestione dei maggiori stock commerciali ma promuove la gestione sostenibile degli stock ittici nel loro complesso, con un forte approccio “prudente” che riconosce l’impatto delle attività umane su tutte le componenti dell’ecosistema marino. La PCP mira infatti a garantire che la pesca e l’acquacoltura siano sostenibili dal punto di vista ecologico, economico e sociale e che rappresentino una fonte di alimenti sani per i cittadini dell’UE. Le flotte pescherecce devono, infatti, applicare sistemi di cattura più selettivi e abolire progressivamente la pratica del rigetto in mare delle catture indesiderate e, sebbene sia importante massimizzare le catture, occorre porvi dei limiti affinché le pratiche di pesca non impediscano il mantenimento degli stock. Anche l’acquacoltura riveste un ruolo fondamentale all’interno degli obiettivi strategici della PCP: essa deve essere promossa in modo sostenibile al fine di diversificare l’attività di pesca e promuove in ultima analisi un uso più efficiente delle risorse marine. Poiché la regolamentazione dell’attività di pesca è una competenza esclusiva dell’Unione Europea, quest’ultima provvede alla pubblicazione di regolamenti che normano lo svolgimento di vari aspetti collegati allo svolgimento dell’alieutica, tra cui le modalità di impiego degli attrezzi da pesca, nonché l’attività di controllo sullo stesso svolgimento delle attività di pesca ed acquacoltura.

    Il Regolamento Mediterraneo (Regolamenti CE N. 1967/2006)
    Il Regolamento CE n. 1967/2006 o Regolamento “Mediterraneo” nasce dall’ esigenza di un contesto
    gestionale specifico per la pesca mediterranea, a cui sono riconosciute peculiarità biologiche, sociali e economiche. Il Regolamento, finalizzato alla gestione dell’attività di pesca nelle acque comunitarie e internazionali del Mediterraneo è rivolto a disciplinare le operazioni condotte anche da pescherecci non europei in acque comunitarie. Le misure adottate sono prevalentemente di tipo precauzionale, cioè rivolte a proteggere e conservare le risorse acquatiche vive e gli ecosistemi marini e a garantirne uno sfruttamento sostenibile. Tra i suoi obiettivi principali, la gestione ecosostenibile della pesca, la tutela dell’ambiente marino e degli stock ittici. Il Regolamento introduce norme riguardanti tecniche e metodi di pesca, impone distanze minime dalla costa, e taglie minime per il pescato, nonché alcune restrizioni per gli attrezzi da pesca (ad esempio, la dimensione degli
    attrezzi stessi e delle maglie ed ami per i diversi tipi di pesca) .In particolare, il regolamento introduce il divieto di pesca con reti da traino, draghe, sciabiche da spiaggia e reti analoghe su habitat coralligeni e letti di mare, ed il divieto di pesca con attrezzi trainati entro una distanza di 3 miglia nautiche dalla costa, l’uso di reti da traino entro una distanza di 1,5 miglia nautiche dalla costa e l’uso di draghe tirate da natanti e draghe idrauliche entro una distanza di 0,3 miglia nautiche dalla costa.

    La pesca illegale (Regolamento CE N. 1005/2008)
    Il Regolamento CE 1005/2008 ha come obiettivo l’istituzione di un regime comunitario per prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (pesca INN), che costituisce una delle più gravi minacce allo sfruttamento sostenibile delle risorse acquatiche, rappresentando una grave minaccia per la biodiversità marina. Nello specifico, vi si elencano i casi in cui la pesca può essere definita INN, e cioè in tutte le situazioni in cui un peschereccio opera:
    – privo di licenza o autorizzazione;
    – non rispettando gli obblighi in materia di registrazione e dichiarazione dei dati relativi alle catture o dei dati connessi, compresi i dati da trasmettere attraverso il sistema di controllo dei pescherecci via satellite;
    – pesca in una zona di divieto, durante un periodo di divieto;
    – utilizza attrezzi da pesca non autorizzati o non conformi; falsifica od occulta le proprie marcature,
    l’identità o l’immatricolazione.
    La gestione dei rifiuti
    La direttiva quadro sui rifiuti attualmente in vigore (2008/98/CE) è stata adottata a seguito della Strategia tematica sulla prevenzione ed il riciclaggio dei rifiuti (COM(2005) 0666) ed ha abrogato la precedente Direttiva quadro (75/442/CEE), la Direttiva relativa ai rifiuti pericolosi (91/689/CEE) e la Direttiva concernente l’eliminazione degli oli usati (75/439/CEE). Per quanto riguarda più specificatamente i rifiuti nelle aree portuali le azioni intraprese dall’UE si adeguano alle norme internazionali di sicurezza stabilite dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) ed in particolare alla Convenzione per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (MARPOL).

    Direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti
    Pur non essendo direttamente inerente all’ambito della gestione dei rifiuti prodotti dalle navi o da attività di pesca, la Direttiva offre spunti di riflessione in quanto stabilisce misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione di qualsiasi tipo di rifiuto (ad esclusione di effluenti gassosi emessi in atmosfera, rifiuti radioattivi, materiali esplosivi in disuso, materie fecali, carcasse di animali morti). La direttiva stabilisce che gli Stati membri devono adottare misure per il trattamento dei loro rifiuti conformemente ad una gerarchia di intervento che vede di preferenza la prevenzione della produzione del rifiuto ed il suo riutilizzo/riciclaggio/recupero al suo smaltimento. La direttiva fissa importati principi rispetto alla responsabilità del rifiuto: il produttore e il detentore sono responsabile del proprio rifiuto e devono gestire lo stesso in modo da garantire un livello elevato di protezione dell’ambiente e della salute umana, provvedendo personalmente al suo trattamento oppure attraverso la consegna ad un soggetto titolato per il trattamento. Il costo della gestione del rifiuto è a carico sostenuti dal produttore iniziale o dal detentore intermedio.
    La Direttiva 2008/98/CE stabilisce inoltre che gli Stati membri devono adottano le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e la gestione incontrollata dei rifiuti.

    Direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i
    residui del carico
    La Direttiva 2000/59/CE6 relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i residui del carico ha come obiettivo specifico la riduzione dell’inquinamento marino. A tal fine è prevista la realizzazione negli Stati membri di adeguati impianti portuali di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico, anche con lo scopo di prevenire il loro rilascio in mare, non solo dalla imbarcazioni comunitarie ma anche da quelle extra-comunitarie che transitano nei mari europei e approdano nei relativi porti. La Direttiva obbliga tutte le navi, compresi i pescherecci e le imbarcazioni da diporto che fanno scalo o che operano in un porto di uno Stato membro a conferire i rifiuti prodotti presso tali impianti portuali e stabilisce un meccanismo di regolazione che indirettamente affronta anche la questione della pesca fantasma. D’altro lato, gli impianti di raccolta predisposti dai porti comunitari devono essere adeguati a ricevere i diversi tipi di rifiuti e i quantitativi prodotti dalle navi che normalmente vi approdano, tenendo conto delle esigenze operative degli utenti dello scalo, dell’ubicazione geografica e delle dimensioni del porto stesso. La Direttiva prevede inoltre l’elaborazione e l’applicazione di un piano di raccolta e di gestione dei rifiuti che contenga le modalità di conferimento e di trattamento dei rifiuti in porto nonché indicazioni sul loro successivo allontanamento delle strutture. Alla luce del principio “chi inquina paga”, il costo di funzionamento degli impianti portuali di raccolta, incluso il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalle navi, deve essere a carico delle navi che li utilizzano. Nell’interesse della tutela ambientale, il regime tariffario dovrebbe incentivare il conferimento dei rifiuti nei porti anziché lo scarico in mare: la tariffa per l’utilizzo degli impianti pertanto deve essere equa, non discriminatoria e trasparente.

    RECEPIMENTO A LIVELLO NAZIONALE DELLA NORMATIVA COMUNITARIA
    La disciplina dell’attività di pesca è completamente demandata all’Unione Europea e conseguentemente conosce quasi esclusivamente lo strumento direttamente coercitivo del regolamento, a cui tuttavia seguono decreti legislativi e Circolari applicative emesse a livello centrale dal competente Ministero per le Politiche Agricole, Agroalimentari e Forestali (MIPAAF) che sanciscono e perfezionano gli obblighi su scala nazionale.

    Protezione dell’ambiente marino e delle sue risorse.
    D. Lgs n. 190 del 13 ottobre 2010.
    La Direttiva 2008/56/CE sulla strategia per l’ambiente marino dell’Unione Europea è stata recepita in Italia con il D. Lgs n.190 del 13 ottobre 2010, che definisce il contesto giuridico per la protezione
    dei mari italiani, secondo un approccio basato sulla conoscenza dello stato ambientale a livello nazionale. Il Decreto stabilisce che a livello nazionale, la strategia per l’ambiente marino sia attuata attraverso vari fasi: la valutazione iniziale, la determinazione del buono stato ambientale, la definizione dei traguardi ambientali e la predisposizione dei programmi di monitoraggio (artt. 8, 9, 10 e 11 del D.Lgs 190/2010), cui fa seguito l’elaborazione di un programma di misure necessarie al conseguimento o mantenimento del buono stato ambientale (art. 11 del D.Lgs 190/2010). Il buono stato ambientale è il concetto chiave del Decreto ed è definito in relazione a ciascuna regione o sottoregione marina, sulla base degli 11 descrittori qualitativi di cui alla Direttiva di riferimento:
    1) Mediterraneo occidentale,
    2) Adriatico,
    3) Ionio e Mediterraneo centrale.
    D. Lgs 9 gennaio 2012, n. 4 Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell’articolo 28 della legge 4 giugno 2010, n. 96.
    Con il Decreto legislativo n. 4 del 2012, l’Italia provvede al riordino, al coordinamento ed all’integrazione della normativa nazionale in materia di pesca ed acquacoltura, al fine di tutelare le risorse biologiche il cui ambiente abituale o naturale di vita sono le acque marine, nonché di prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, dando corretta attuazione ai regolamenti comunitari in materia. In particolare con il presente Decreto viene istituito un sistema di “a punti” per infrazioni gravi , come previsto dal Regolamento comunitario sui controlli: al commettere di un’infrazione grave sono assegnati dei punti di infrazione alla licenza di pesca, secondo modalità univoche individuate dal decreto stesso. Sono poi definite le modalità attraverso cui è possibile ottenere la cancellazione dei punti di infrazione, quali per esempio, la partecipazione volontaria, da parte del titolare della licenza di pesca, a una campagna scientifica per il miglioramento della selettività degli attrezzi da pesca oppure a una attività di pesca che rientri in un programma di corretta gestione della pesca marittima.
    Circolare MIPAAF n. 0041807 del 22 novembre 2011
    Con la circolare n. 0041807, Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali intende diffondere tra il ceto peschereccio gli obblighi previsti dai regolamenti comunitari entrati in vigore il 1° gennaio 2012. In particolare la Circolare fa riferimento all’Art. 8 del Regolamento CE n. 1224/2009 ed al Regolamento di esecuzione CE n. 404/2011 Sezione 2 che disciplinano omogenee modalità di identificazione degli attrezzi da pesca, mediante la marcatura degli stessi.
    La gestione dei rifiuti
    A) Il Testo Unico in materia di Ambiente: disposizioni specifiche per la gestione dei rifiuti e s.m.i.
    (D. Lgs n. 152 del 3 aprile 2006 8- Testo unico in materia ambientale e s.m.i tra cui D. Lgs n. 205
    del 3 dicembre 20109) = Le disposizioni della Parte IV del Testo unico disciplinano la gestione dei rifiuti, anche in recepimento delle Direttive europee, al fine di assicurare un’elevata protezione dell’ambiente. Il Decreto comprende e disciplina anche i rifiuti portuali nonché quelli generati dall’attività di pesca, che, classificandosi come rifiuti da attività produttiva, sono definiti rifiuti speciali. Ai sensi del decreto, infatti, i rifiuti sono classificati, secondo l’origine, in rifiuti urbani o speciali (ovvero quelli provenienti da attività agricole ed agro-industriali, da attività di demolizione, da lavorazioni industriali, artigianali e commerciali, derivanti da attività di recupero e smaltimenti di rifiuti, derivanti da attività sanitarie), nonché, secondo la loro pericolosità, in rifiuti pericolosi e non. In continuità con la normativa comunitaria, il Decreto 152/2006 stabilisce che:
    – i rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute umana e assicurando un’elevata protezione dell’ambiente;
    – la gestione dei rifiuti deve essere effettuata conformemente ai principi di precauzione, proporzionalità, responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel processo, nel
    rispetto del principio del “chi inquina paga”;
    – è promossa la riduzione dello smaltimento finale a favore, in primis, del riutilizzo e del riciclo del
    rifiuto e successivamente di altre forme di recupero per ottenere materia prima secondaria nonché
    della produzione energetica da rifiuti.
    Il D. Lgs 205/2010 che modifica e amplia il Testo Unico, introduce il concetto di responsabilità
    della gestione dei rifiuti, specifica che il produttore iniziale o altro detentore conserva la
    responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste. Nel complesso, quindi, tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di gestione dei rifiuti sono responsabili della loro corretta gestione, secondo un principio di corresponsabilità di tutti coloro che rientrano nell’ambito della gestione dei rifiuti dal momento della produzione a quello del loro definitivo smaltimento/recupero. Inoltre, la tracciabilità dei rifiuti deve essere garantita dalla loro produzione sino alla loro destinazione finale. Nonostante il Testo unico fornisca indicazione anche per la gestione dei rifiuti in ambito portuale, questa disciplina è comunque rimandata alle disposizioni della legge 84/1994 e, soprattutto al D. Lgs 182/2003 di attuazione della Direttiva 2000/59/CE.
    B) D. Lgs n. 182 del 24 giugno 2003, n. 182 Attuazione della direttiva 2000/59/CE relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi ed i residui del carico = Recependo la Direttiva 2000/59/CE, l’obiettivo del D. Lgs 182/2003 è quello di ridurre gli scarichi in mare, in particolare quelli illeciti, di rifiuti e di residui del carico prodotti dalle navi che utilizzano porti situati nel territorio italiano, nonché di migliorare la disponibilità e l’utilizzo degli stessi impianti portuali di raccolta. Il decreto prevede che i porti, attraverso le autorità portuali o, ove queste ultime non presenti, attraverso le autorità marittime (la capitaneria di porto), debbano essere dotati di opportuni impianti e di servizi portuali di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico adeguati in relazione alla classificazione dello stesso porto e opportuni piani di raccolta e piani di gestione dei rifiuti stessi.

    Nicola Di Battista
    Psicologo / Psicoterapeuta, Assistente alla comunicazione per sordi e ciechi con l’uso del Braille e della Lingua Italiana dei Segni – Dattilologia, Mediatore Familiare, Specializzato con Master in Psicologia Oncologica. Non ultimo Presidente dell’Organizzazione di Volontariato Care The Oceans.

    Contatti:
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    Indirizzo di posta elettronica: caretheoceans@gmail.
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    CARE THE OCEANS
    L’organizzazione di Volontariato Care The Oceans nasce per difesa della flora e fauna acquatica dei mari dei fiumi e dei laghi, promuovendo pulizie coste e fondali, formazione sensibilizzazione per grandi e piccini, progetti educativi nelle scuole, programmi di ricerca e di integrazione e sensibilizzazione per persone in svantaggio bio – psico – sociale, attraverso il coinvolgerli nelle nostre attività e presentandogli in nostro operato.
    Non ultimo utilizza audio – interviste, il Braille, la Lingua Italiana dei Segni (LIS) / Dattilologia e la Comunicazione Aumentativa Alternativa per sensibilizzare al rispetto sia della flora e fauna acquatica e che della biodiversità quante più persone possibili, adattandoci, noi, alle loro modalità comunicative. Collabora con Comuni, Enti nazionali, Enti locali, Associazioni, Didattiche subacquee, Diving Center, Scuole pubbliche e private, Agenzie di Promozione Sociale e Circoli subacquei.

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