Le isole di plastica

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    Ogni anno il 10% della plastica prodotta finisce in mare, disperdendosi dalla superficie ai fondali. Produciamo troppa plastica e ne ricicliamo troppo poca. La plastica è uno di quei materiali capace di creare problemi ambientali molto preoccupanti, poiché va ad ammassarsi in oceani, ambienti una volta incontaminati. 
    Nella porzione di oceano Pacifico che si trova tra la California e le isole Hawaii, nel 1997 fu scoperto per la prima volta il cosiddetto Pacific Trash Vortex, una sterminata macchia di rifiuti, grande quanto il Texas, che galleggia sulle acque, che raggiunge quasi le coste del Giappone. Ora, nell’oceano Atlantico, si è notato qualcosa di analogo: un enorme ammasso di rifiuti che fluttua a sud delle isole Bermuda. È stato creato dalle correnti marine che trasportano per centinaia di chilometri i rifiuti prodotti dal Nord America.
    La Great Pacific Garbage Patch (di 3,5 milioni di tonnellate) si è formata intorno al 1950 ed è continuamente alimentata da scarti che provengono per il 20% da navi e dalle piattaforme petrolifere e per l’80% direttamente dalla terraferma. La sua dimensione viene stimata fra 700 mila kmq e 15 milioni di kmq. Messe insieme, le due raggiungono l’estensione dell’Europa. Attualmente nel mondo vengono prodotti, ogni anno, circa 250 milioni di tonnellate di plastica e meno del 5% viene riciclata. L’unico modo per ridurre la dimensione delle isole di plastica è quella di aumentare il riutilizzo di questo materiale. Le stesse caratteristiche che rendono la plastica adatta a così tante applicazioni industriali, la sua resistenza e la sua stabilità, rappresentano infatti un problema per gli ecosistemi marini. Secondo l’UNEP, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite, la plastica costituisce il 90% di tutta la spazzatura che galleggia sulle superfici marine.
    Questi continenti galleggianti di rifiuti contengono Pvc, bisfenolo A e altre sostanze tossiche e cancerogene e non sparirà prima di centinaia di migliaia di anni. Le componenti tossiche della plastica, inoltre, possono interferire con importanti processi biologici umani che sono alla base dello sviluppo e della riproduzione: alterano le funzionalità endocrine, favoriscono patologie come il diabete e sono legate all’insorgenza di numerose malattie cardiovascolari, oltre a danneggiare gli animali. I rifiuti di plastica sono delle vere e proprie bombe chimiche: assorbono molti dei più pericolosi agenti chimici inquinanti che si trovano disciolti nell’oceano. Un animale che mangia per sbaglio questi frammenti di plastica si trova quindi ad essere esposto ai composti chimici pericolosi concentrati su ogni frammento.
    Questa enorme massa fluttuante di rifiuti rappresenta quindi un pericolo non solo per pesci, volatili, tartarughe e mammiferi marini, ma anche per la vita dell’uomo.
    La plastica può causare danni ingenti e irreversibili ai fondali e alle barriere coralline. Inoltre può trasportare specie o microrganismi invasivi in habitat differenti da quelli originari ed è una minaccia per la conservazione della biodiversità: i piccoli pezzi di plastica possono infatti fungere da superfici pronte ad essere colonizzate da vari microrganismi. Queste piante e questi animali vengono poi trasportati dalle correnti in habitat diversi da quelli originali. In questo modo questi “autostoppisti dell’oceano” invadono altri habitat. Le isole di plastica hanno degli effetti devastanti sugli ecosistemi marini. Mentre i rifiuti di origine biologica sono biodegradabili, la plastica si fotodegrada, vale a dire che la luce solare la scinde in polimeri più piccoli altamente tossici, che si mescolano al plancton e vengono ingeriti da tutti gli animali che se ne nutrono, come per esempio le meduse.
    Questi animali sono alla base della catena alimentare e attraverso essi la plastica viene ingerita da tutti gli animali che se ne cibano provocando così la morte per avvelenamento di tartarughe (100000 vittime stimate), uccelli (oltre 1 milione di vittime) e mammiferi marini (100000 vittime). Purtroppo, anche nel Mar Mediterraneo sono presenti due «strisce» di plastica, una tra Cagliari e le isole Egadi, l’altra tra La Spezia e l’Arcipelago toscano. Educare la persone al rispetto del mare ed insegnare l’informazione indispensabile per mantenerlo vivo e vivibile presuppongono iniziative di pulizia fondali e spiagge per combattere l’analfabetismo marino e comprendere fino in fondo un valore profondamente etico per le nostre generazioni e per quelle future: distruggere o lasciare morire il mare significa distruggere l’uomo e tutte le altre specie organiche ed inorganiche.

    Nicola Di Battista
    Psicologo / Psicoterapeuta, Assistente alla comunicazione per sordi e ciechi con l’uso del Braille e della Lingua Italiana dei Segni – Dattilologia, Mediatore Familiare, Specializzato con Master in Psicologia Oncologica. Non ultimo Presidente dell’Organizzazione di Volontariato Care The Oceans.

    Contatti:
    Pagina Facebook: care the oceans organizzazione di volontariato
    Indirizzo di posta elettronica: caretheoceans@gmail.com
    Numero telefonico e Whats App: 327/5941319

    CARE THE OCEANS
    L’organizzazione di Volontariato Care The Oceans nasce per difesa della flora e fauna acquatica dei mari dei fiumi e dei laghi, promuovendo pulizie coste e fondali, formazione sensibilizzazione per grandi e piccini, progetti educativi nelle scuole, programmi di ricerca e di integrazione e sensibilizzazione per persone in svantaggio bio – psico – sociale, attraverso il coinvolgerli nelle nostre attività e presentandogli in nostro operato.
    Non ultimo utilizza audio – interviste, il Braille, la Lingua Italiana dei Segni (LIS) / Dattilologia e la Comunicazione Aumentativa Alternativa per sensibilizzare al rispetto sia della flora e fauna acquatica e che della biodiversità quante più persone possibili, adattandoci, noi, alle loro modalità comunicative. Collabora con Comuni, Enti nazionali, Enti locali, Associazioni, Didattiche subacquee, Diving Center, Scuole pubbliche e private, Agenzie di Promozione Sociale e Circoli subacquei.

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